Diciannove secondi e poi tutto è svanito nel nulla.
Come una saetta nel cuore di chi è rimasto, il crollo di Viale Giotto dell’11 novembre 1999 ha provocato una ferita nel tessuto urbano di una città che non può cancellarne il ricordo.
E’ proprio una saetta alta 50 metri e visibile da tutta la città a richiamare l’attenzione di tutti verso un’area che porterà sempre indelebile il ricordo di quanto è accaduto.
Maestoso e imponente, questo alto obelisco in acciaio, che ricorda nelle sue forme una saetta, squarcia il terreno e rappresenta la ferita ancora aperta nel cuore di tutti gli abitanti non solo del quartiere, ma di tutta la città.
La sua collocazione fuori dall’area di sedime dell’edificio crollato, e mai più ricostruito, sta a simboleggiare proprio che questa tragedia immensa ha colpito l’intera città.
Segno di questa ferita è proprio l’interruzione della pavimentazione della piazza che addirittura si solleva quasi ad indicare la violenza con cui questo fulmine si è abbattuto sulla città.
“L’architettura è viva perché contiene l’eco di un momento di vita”.
E’ così che Giuseppe Ungaretti ci fa comprendere il profondo significato dell’architettura, termine quest’ultimo che può essere utilizzato sia quando si parla di una capanna che quando si fa riferimento ad un’intera città. Quando si parla di architettura quindi si intende allo stesso tempo parlare del singolo edificio e dell’intera città che lo ospita. Un edificio ha sempre rappresentato simbolicamente e figurativamente qualcosa ed è servito materialmente a soddisfare i bisogni dell’uomo. Esso è quindi una rappresentazione che contemporaneamente svolge una funzione e che quindi proprio perché esiste implica conseguenze a livello urbano. Ecco perché oltre al tragico evento umano, il crollo di un edificio all’interno di un tessuto urbano consolidato comporta un vuoto che non è esso stesso solamente una pura perdita di materia. Una prima elementare considerazione che può essere fatta per rafforzare questa tesi può essere infatti proprio la constatazione del fatto che venendo a mancare un edificio si vengono ad alterare proprio i rapporti fra luce ed aria che caratterizzavano prima del crollo quegli spazi.
Come si può intendere infatti uno spazio, se non un luogo nel quale ad esempio si inducono delle sensazioni proprio grazie alla percezione della luce e delle ombre?
Tutto il progetto per questo improvviso “vuoto urbano” formatosi nel quartiere è partito da queste considerazioni e soprattutto dalla volontà di mantenere vivo il ricordo di ciò che c’era prima proprio cercando di ricomporre quella unità morfologico-spaziale andata perduta.
Ervin Panofsky nel suo testo “La prospettiva come forma simbolica” evidenzia più volte che è proprio nella rappresentazione dello spazio che si può ricercare una unità progettuale. Nel momento in cui si progetta qualcosa è molto importante affrontare delle scelte con una certa sensibilità e ciò si realizza quando si cerca una forma con amore, cercando di creare un oggetto che, per dirla con le parole di Paul Valery nel suo “Eupalino”: “ricrei lo sguardo, con versi con lo spirito e s’accordi con la ragione”.
Questo progetto è nato per non dimenticare un luogo nel quale prima c’era vita, per non dimenticare delle persone che prima abitavano questo luogo, per non dimenticare una parte importantissima nella storia umana ed urbanistica della città di Foggia.
Tutta l’organizzazione dello spazio è stata condotta con un attento rigore geometrico in modo tale da realizzare una articolazione degli elementi che la costituiscono tale da raggiungere il fine preposto.
Obiettivo del progetto è quello di far emergere uno spazio urbano collettivo dalla relazione o dall’insieme di relazioni nuove che si sono venute a creare tra gli edifici che adesso si trovano ad essere muti spettatori di uno spazio urbano di risulta.
Questo obiettivo può essere raggiunto instaurando una relazione fra una soluzione urbana data dalla piazza ed una di distanziamento data da un elemento isolato che ha il compito di evidenziarne e sottolinearne l’esistenza.
Una piazza è stata sempre considerata come un vuoto, come un processo di lenta accumulazione risultata dalla continuità degli organismi architettonici che la compongono.
In questo caso invece ci si trova a dover forzare delle relazioni nuove, a dover trovare dei nuovi rapporti fra degli edifici che prima avevano delle diverse relazioni fra loro, ed allo stesso tempo però non si deve snaturare la nuova, quasi spontanea conformazione che questo spazio ha assunto dopo il crollo perché questo indurrebbe tutti a dimenticare.
E’ per questo quindi che si è ipotizzato uno spazio organizzato intorno al vuoto mediante un forte elemento architettonico e tanti piccoli elementi naturali quali l’acqua, la pietra, la luce naturale ed artificiale, le piante. Tutto questo sta quasi ad indicare l’immaterialità di un vuoto, in modo tale da cercare di crearne una immagine. La costruzione del vuoto è avvenuta attraverso elementi distinti collocati all’interno di un centro definito dalla forma dei percorsi.
Mantenendo la viabilità di collegamento fra le due importanti arterie di comunicazione fra le quali esso si trova (Viale Giotto e Via Lucera) si è ipotizzato uno spazio pubblico che, a partire dall’obelisco, si apre come un abbraccio verso l’area di sedime del fabbricato svanito.
Percorrendo la viabilità pedonale che da Viale Giotto porta in questa piazza, si può notare che lo sguardo è guidato verso l’area di sedime del fabbricato crollato.
L’orientamento dell’obelisco e “ l’abbraccio” disegnato mediante le sedute e gli alberi, infatti, portano il visitatore ad accorgersi immediatamente della doppia natura che permea questo spazio: quella di spazio pubblico e quella di memorial.
Lo spazio pubblico è infatti segnato dalla presenza dell’ obelisco, dimensionato in modo tale da poter essere visto di giorno e di notte da tutta la città.
Il valore simbolico di questa imponente saetta è enorme e sta ad indicare non solo la ferita già prima specificata, ma anche una tensione verso l’alto, quasi a voler creare un collegamento tra l’ignoto e l’umana sofferenza (di cui lo spazio porta visibili le cicatrici).
Ecco quindi che l’obelisco, che nell’antico Egitto rappresentava un tributo al Dio del Sole, si trasforma e si smaterializza diventando sempre più sottile man mano che si procede dal basso verso l’alto, fino a diventare nell’estremità superiore luce morbida, delicata, diffusa in piccoli raggi mirati nel cielo.
E’ proprio la sua maestosità a rendere questo spazio tutto rivolto verso il memorial.
Il volgersi dello sguardo è così accompagnato da grandi salici piangenti che,insieme all’unico prima presente nella piazza, fanno da sfondo al memorial.
Quest’ultimo è rappresentato da un solco, ancora una volta una ferita, un rivolo d’acqua che segna proprio un lato dell’area di sedime del fabbricato che non c’è più.
E’ così quindi che dallo spazio urbano e collettivo vero e proprio si entra in uno spazio più contemplativo e commemorativo nel quale però c’è un richiamo alla vita: all’interno di questa “linea d’acqua” infatti, sessantasette zampilli sommessamente parlano, quasi a voler rappresentare le voci delle sessantasette persone che hanno perso la vita in quella tragica notte.
L’acqua in leggero movimento infatti rappresenta il ricordo ancora vivo in chi è rimasto e rende questa piazza un luogo per non dimenticare mai chi non c’è più.
E’ infatti il ricordo dei cittadini persi che deve rimanere vivo e non il ricordo dell’evento che ha reso questo vuoto simile ad un cimitero per troppo tempo.
L’essenza di questo spazio viene colta lentamente procedendo lungo le vie pedonali e carrabili, in questo lento percorso fatto di luce, di aria, del profumo degli alberi, del suono dell’acqua quest’ultima mai immobile a rappresentare la morte, ma in lieve movimento così da indicare il ricordo sempre vivo dei cittadini che non ci sono più.
È’ proprio in questo modo che l’obelisco ed il memorial stanno ad indicare il loro doppio valore simbolico di morte e vita, contrasto che fa parte della memoria di chi ha perso i propri cari e si ritrova a vivere in uno spazio collettivo i cui segni incoraggiano “il movimento” e la “processione” nello spazio quasi a voler indicare che il tragico evento fa ormai parte integrante della città. E’ la città stessa che contiene gli elementi propri dai quali fare rinascere lo spazio in oggetto. E’ l’Araba Fenice, è la città che rinasce dalle sue ceneri. Ovidio, nelle Metamorphoses, ci narra della fenice, uccello che giunto alla veneranda età di 500 anni, termine ultimo della vita concessagli, depone le sua membra in un nido di incenso e cannella costruito in cima ad una palma o a una quercia, e spira. Dal suo corpo nasce poi un’altra fenice che, divenuta adulta, trasportò il nido nel tempio di Iperione, il Titano padre del dio Sole. Ovidio dice: «.. si ciba non di frutta o di fiori, ma di incenso e resine odorose. Dopo aver vissuto 500 anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci s’abbandona sopra, morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi. Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice, destinata a vivere tanto a lungo quanto il suo predecessore. Una volta cresciuta e divenuta abbastanza forte, solleva dall’albero il nido (la sua propria culla, ed il sepolcro del genitore), e lo porta alla città di Heliopolis in Egitto, dove lo deposita nel tempio del Sole.»
E’ questo il senso che il progetto vuole dare a tutti gli elementi che rappresentano la vita, cioè il movimento, il percorrere lo spazio, il muoversi dell’acqua anche nel memorial dove alla contemplazione si aggiunge ancora una volta qualcosa che rappresenta la vita.
Ripercorrendo il ragionamento fatto nella progettazione dunque è necessario dire che il primo segno è dato dalla “saetta” e dalla sua posizione all’interno di un ambito urbano creato “rimodellando” la viabilità. Delimitato quindi l’ambito, come se esso fosse un recinto, si è passati a formulare una serie di relazioni fra ciò che è dentro e ciò che è fuori, fra pieni e vuoti ecc. In un secondo luogo si è stabilita la forma del percorso rispetto al memorial, dato che è proprio tra questi due che si stabilisce la relazione fondamentale.
Ultimo elemento in questa descrizione, ma importantissimo nel suggellare l’unione di tutte queste componenti morfologiche è dato dalle protezioni di immagini sulla parete dell’edificio rimasto in piedi e che prima era adossato a quello crollato.
Si è infatti pensato di realizzare un megaschermo mediante un pannello costituito da numerose lastre di vetro grigio scuro sorretto da una struttura reticolare in acciaio. Su di esso potranno essere proiettate delle poesie e delle immagini con modalità a scelta dell’amministratore locale e degli stessi cittadini, in modo tale da rendere questo spazio collettivo vivo in toto. Nel giorno della memoria del crollo potrebbero essere proiettate immagini o poesie, in tutti gli altri giorni dell’anno si può immaginare di utilizzare questo spazio come un gigantesco palinsesto sempre in evoluzione al servizio della città stessa: Tutto questo potrà essere facilmente attuato collocando un videoproiettore all’interno dell’obelisco in modo da renderne allo stesso tempo facile la manutenzione e difficile il sabotaggio causato da irriverenti vandalismi.
La realizzazione di questo elemento è molto importante in quanto elimina il senso di “spazio di risulta” che permea questo vuoto e suggella in maniera definitiva l’orientamento del tessuto verso il memorial che così diventerebbe la quinta di un “palcoscenico urbano”. Attraverso questi tre elementi quindi (una saetta, un memorial, un megaschermo) e attraverso le relazioni nate dalla loro collocazione all’interno di un vuoto urbano, si è pensato di dare una forma ad uno spazio senza però cancellarne la storia che ha portato a questa sua evoluzione.
E’ infatti alla base delle relazioni che questi tre elementi intrattengono tra loro e con l’area circostante che essi possono essere confrontati e non sulla base delle loro forme.